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Vita Cristiana

Scritto da Super User.


Faccio un esempio: la categoria dei poveri, ecc. si è molto spiritualizzata nella lettura del Nuovo Testamento. Il Nuovo Testamento non è così, ma l'abbiamo letto ormai da secoli in una prospettiva tale, arrivando poi a dire "il povero basta che sia staccato interiormente, anche se possiede mezzo mondo, ma basta che sia distaccato...": è questo che intendo per spiritualizzazione, cioè l'averlo svuotato di concretezza, come se le parole di Gesù non supponessero e non partissero da un fatto reale, da situazioni lette e invece parlasse di metodi, di spiritualità, di ascesi, ecc. ecc.
Questo fraintendimento per cui l'Antico Testamento sarebbe un testo che afferma la giustizia tanto da vedere un Dio giusto contrapposto al Dio misericordioso del Nuovo Testamento, è una lettura semplificatrice della Scrittura. Perché sia l'Antico che il Nuovo condividono elementi che creano una continuità e uno sviluppo e, almeno in questo campo, non una contrapposizione. Allora bisognerebbe tentare di despiritualizzare il Nuovo Testamento, cioè di riportarlo a una lettura che ha un referente reale nei fatti, nelle situazioni che Gesù legge, interpreta e che poi denuncia o spiega. Queste mi sembrano due premesse utili ad affrontare questo problema ed anche altri.
Normalmente sono tre le posizioni che si delineano nella lettura del rapporto tra fede e impegno sociale.

La prima è una lettura che ci è stata molto rimproverata, oggi un po' meno, da ambienti della cultura laica e filosofica. Vi leggo solo una frase di Merleau-Ponty, francese e studioso di linguistica e sociologia: "La fede in Dio uccide in noi il senso dell'uomo e della sua storicità". Vale a dire - forse a partire dai comportamenti concreti delle comunità e della Chiesa - che credere significa non vedere più le problematiche reali, non ritenere parte integrante della propria fede le problematiche, tanto che la fede è l'omicidio dell'uomo e delle sue realtà.

Non hanno sempre tutti i torti se pensiamo a un altro grosso fraintendimento che abbiamo per tanti anni predicato, che è la rassegnazione alla storia. Si diceva, chi ha la mia età l'ha sentito non solo una volta: "Pazienza, poi nell'aldilà..-." Davanti alle difficoltà si prospettava sempre un "premio", un cambio di situazione che però non si poteva aspettare di qui, una specie di rassegnazione al male e all'ingiustizia che veniva però ripagata con la prospettiva del Paradiso e della ricompensa. E' chiaro che una fede di questo tipo uccide effettivamente ogni ragione di un impegno sociale.
Questa è una prima posizione: la fede distrugge la ragione di ogni forma di impegno, cosa questa che ha poi anche provocato una separazione, una lontananza dalle problematiche umane, ecc. e una grossa difficoltà a calare la fede dentro la storia; pensate solo nel secolo scorso al problema della questione operaia, con quale difficoltà la Chiesa ha parlato ai lavoratori!
C'è una seconda posizione tipica di una certa cultura, normalmente storica di destra, liberale, dove si afferma che è del tutto indifferente questo rapporto ( tra fede ed impegno sociale ) non viene più letto negativamente; la fede non importa niente e non deve importare niente perché gli affari sono affari, i soldi sono soldi e quindi non ha nulla a che vedere con la fede. La fede si gioca altrove, non nella vita quotidiana, si gioca in chiesa, nella tua camera quando sei al chiuso, puoi lasciarti andare a tutti i misticismi che vuoi purché non ci sia rapporto, perché le regole che valgono in un campo non valgono nell'altro, per cui se sono credente mi devo sdoppiare, devo agire a partire da certi criteri nel sociale e devo agire a partire da altri criteri se sono in Chiesa o se sono in ambienti ecclesiali. Sono cose non del tutto scomparse e anche se riaggiornate sono ancora a volte presenti.
E poi c'è una terza posizione che potremmo vedere ribadita con forza nel documento "Gaudium et Spes" e quindi nel Vaticano II in tutte le sue visioni, per cui la fede esige l'impegno sociale e lo esige non come un soprappiù, ma per natura propria.

Ma per continuare è necessario rispondere alla domanda: che cosa è la fede?
Dal punto di vista di un credente come si rappresenta la fede?
Togliamo subito una prima banalizzazione che la fede consista nell'affermare l'esistenza di Dio; per un credente è un dato così ovvio, che non costituisce una risposta soddisfacente. L'affermazione che Dio esiste è così universale che anche chi crede nelle forze della natura, chi crede in qualche essere superiore la condivide, perché Dio assume una caratteristica del tutto generica. Quindi scartiamo subito questa risposta.
Direi piuttosto che la fede si misura se mai sul come Dio esiste o sul come Dio si è manifestato, nelle modalità che ha assunto e che noi decifriamo dalla Bibbia, come ha assunto il proprio esistere; questo ci interessa molto di più come risposta che non il fatto che Dio esista.
Per noi credenti cristiani che ci riferiamo a due testi, il testo dell'Antico Testamento, quindi la Bibbia ebraica, e poi i testi specifici del Cristianesimo, la risposta a questa domanda non può che passare attraverso l'analisi di come Dio si è reso presente nel mondo e sul perché si è reso presente, in che situazioni Dio ha garantito la sua presenza.
La maggior parte delle volte incontriamo Dio – adesso focalizziamo l'Antico Testamento – proprio nelle situazioni di ingiustizia sociale. Questo lo conosciamo da tutti i Profeti; non c'è Profeta che non denunci queste situazioni e non dica che proprio in queste realtà Dio prende voce, mette le sue parole in bocca al profeta, il quale denuncia la mancanza di giustizia come il peccato per eccellenza, il peccato più grave, tanto che Dio stesso si assume il compito di fare giustizia. Poi la Bibbia lo spiega con le categorie e con il linguaggio che ha; quindi parla di punizione, di ira, secondo il modo di pensare al funzionamento della giustizia di quell'epoca.
Dio si assume questo compito, espresso attraverso prese di posizioni come la sua ira, il suo giudizio, la sua vendetta, ecc...(basti pensare all'esodo e alla lunga trafila di gesti con cui Dio tenta di strappare al Faraone la liberazione del suo popolo) che ha lo scopo di distinguere l'innocente dal colpevole.
Perché l'innocente e il colpevole non si possono trattare allo stesso modo e tanto meno è possibile invertire le relazioni, non posso punire l'innocente e assolvere il colpevole. Per dire che Dio è giusto, si fa vedere che Dio usa tutti i mezzi che la giustizia di quel tempo aveva a disposizione per capire dove sta il diritto e dove sta il torto, dove sta l'innocente, la vittima e dove sta l'aggressore, perché altrimenti Dio non è più giusto se colpisce l'innocente e lascia sopravvivere il colpevole. Infatti una delle domande più ricorrenti dell'Antico Testamento è: perché continuano a sopravvivere, a stare bene i disonesti e invece gli innocenti la pagano?
Perché era così grave questa domanda? Perché colpiva la concezione stessa di Dio che è giusto e non può sopportare di chiamare il bene male e il male bene.
Allora il tema della giustizia è un tema che Dio si è assunto in prima persona e che tramite soprattutto la voce profetica ha garantito di far sentire ai sordi: se non ci pensate voi ci penso io. Anche qui è espressa con le categorie verbali, letterarie dell'epoca. Per cui Dio si presenta come l'avvocato difensore del povero, della vedova, dello straniero, ecc. Non fate voi giustizia? Scendo io in campo e faccio io l'avvocato difensore di queste categorie di persone che voi avete abbandonato. Al contrario c'è la denuncia del disonesto, del perverso, di chi si arricchisce a spese degli altri, di chi compera la vita e la dignità dei poveri, ecc.; pensate Amos, pensate Isaia e le varie denunce.
Dunque il tema della giustizia e dell'impegno che la giustizia esige per essere messa in atto è un tema centrale che contiene quello che noi potremmo chiamare l'impegno sociale, quell'impegno per la trasformazione dei rapporti interni della società quando non sono giusti e rispettosi di ogni singolo uomo.
Se questo vale per l'Antico Testamento vale anche per il Nuovo, per il quale è un assurdo spiritualizzare le parole povero o altre simili per farle diventare l'espressione esclusiva di una realtà interiore. Prendiamo per esempio i due testi delle Beatitudini: Matteo dice "beati i poveri in spirito" e Luca dice "i poveri" semplicemente. Non sono mancate letture che hanno inteso spiritualizzare l'espressione di Matteo contro quella troppo cruda di Luca. Ma quando Matteo aggiunge "in spirito", è per allargare e non per mettere da parte la reale povertà, mentre Luca fa il processo contrario; comincia a pensare ai poveri proprio a partire da quelli che hanno fame, che piangono, che sono nella sofferenza. Allora la spiritualizzazione consiste nello svuotare di riferimenti concreti queste categorie di persone come i malati, i peccatori. Anche questi li abbiamo spiritualizzati completamente riducendo fortemente la coscienza del peccato contro gli altri, quello dalle dimensioni oltrepersonale, cioè comunitaria e sociale
Contro Dio direttamente è difficile peccare: c'è l'idolatria e la bestemmia. Molto di più è quello che passa attraverso le relazioni umane, e la stessa idolatria, una sua forma raffinata è continuare a credere in Dio di cui si è sfigurato il volto! Allora è impossibile spiritualizzare queste categorie, perché vorrebbe dire svuotarne o ridurne la portata, il mordente surreale.
Il Dio misericordioso del Nuovo Testamento non può essere invocato contro il Dio giusto dell'Antico Testamento; la misericordia non può essere letta contro la giustizia, come due atteggiamenti diversi per cui se si è misericordiosi non si può essere giusti; almeno non nel Cristianesimo, perché qui la giustizia comprende la misericordia e la misericordia comprende la giustizia, vale a dire che ci può essere una giustizia ingiusta, si può cadere nel formalismo puro, come anche la misericordia può diventare ingiusta se, come diceva Paolo VI, diamo per carità ciò che è dovuto per giustizia. Per cui, giusto e misericordioso, giustizia e carità non possono essere contrapposte, vanno coniugate insieme, perché la carità sia giusta e la giustizia non sia formale.
Questi aspetti definiscono il come crediamo, perché il come crediamo e il ciò che crediamo non possono separarsi, fa parte della fede il 'come' Dio ha agito nel mondo.
Allora se io volessi definire la fede, dovrei dire che crediamo in un Dio che si è fatto vicino all'uomo, nella sua realtà storica. Se non dico questo, la fede diventa inconcludente, ma anche senza oggetto.
Ed è l'unica cosa che possiamo dire perché la teologia può tentare tutte le definizioni di Dio, ma rimangono tentativi più o meno riusciti, perché Dio non si è mai definito di fronte a noi, Dio si è solo sempre mostrato nel suo agire verso di noi; noi sappiamo come Dio agisce!
In questo testo viene spiegato tutto; l'autore ricorda che il modo di concepire la giustizia era duplice nell'Antico Testamento: come processo giuridico, dove c'è un giudice, un colpevole e un innocente e dove il giudice, ascoltando le due parti, deve assumersi la responsabilità di capire e decidere chi è l'uno e chi è l'altro. Qui entra in gioco l'incorruttibilità del giudice divino rispetto a quelli umani che prendono bustarelle sottobanco. Questo tipo di giudizio non può che sfociare in un'assoluzione o in una condanna, non c'è via di uscita.
Ma c'è un altro modo di pensare all'esercizio della giustizia che è il 'tu per tu' tra la vittima e l'aggressore; quello che si è fatto in Sud Africa; non si ci affida al giudizio di un terzo ma si confrontano le parti; naturalmente ci vogliono delle condizioni di disponibilità perché vittima e aggressore si incontrino: l'aggressore riconosca e confessi la sua aggressione, il suo peccato e chieda scusa, perdono e la vittima faccia capire il suo dolore e la sua sofferenza e con questo "redima" l'aggressore che smette di fare l'aggressore. E' l'incontro quindi che non è più mediato da un giudizio che sfocia in condanna o assoluzione ma – se funziona –apre la strada alla riconciliazione. Ora questo lo troviamo sovente nella Bibbia quando Dio interviene direttamente con il suo popolo: "Guarda, tu mi hai fatto questo, tu mi hai tradito, tu mi hai dimenticato, tu mi hai girato le spalle" e il popolo dice "sì, hai ragione" e fa professione di fedeltà a Dio.
C'è anche la storiella di un rabbino, il quale era stato offeso da un altro suo connazionale e tutti i giorni andava a passeggiare davanti alla cortile della casa di chi l'aveva offeso. A un certo punto questo si stufa e gli chiede: "Perché tutti i giorni passi qui davanti?" "Perché voglio darti l'occasione di chiedermi perdono, perché questo è l'unico modo per cui io e te possiamo ritornare a parlare".
Se non si entra nella disponibilità di riconoscere l'errore fatto, il rapporto non può sussistere, non può riprendere. Io non posso riprendere il rapporto con uno che non sa o non riconosce di avermi fatto del male
E' quello che può avvenire tra amici o all'interno della famiglia, dove il rapporto si gioca sulle disponibilità dei membri della famiglia, non ci si affida a un terzo, che deve decidere chi ha torto e chi ha ragione.
Questi metodi che la Bibbia presenta confermano che il patto della giustizia, cioè il rapporto corretto, onesto tra persone è fondamentale.
Se poi tentiamo di approfondire che cosa vuol dire impegno sociale, mi riferisco solo a un elemento, che è già più conosciuto: la centralità dell'immagine della realtà del Regno di Dio sia per l'Antico che per il Nuovo Testamento, dove il Regno di Dio fondamentalmente è rappresentato da come una società è capace di realizzare la giustizia. Il Regno di Dio non è nient'altro; è che finalmente gli uomini imparano o sono disponibili a imparare a trattarsi dignitosamente l'uno con l'altro. Pensiamo alle indicazioni di S. Paolo "se rubavi adesso non lo fai più, se facevi qualcos'altro adesso non lo fai più", perché cambi prospettiva, ed è sempre la prospettiva delle relazioni non solo interpersonali fra me e un altro, ma sociali cioè di gruppo.
Il concetto del Regno di Dio è indistinguibile dal concetto di una giustizia realizzata; le parabole del Vangelo indicano una giustizia che è coniugata con la carità, con la misericordia, con l'attenzione all'altro, non solo con un computo di meriti e demeriti, di giustizia distributiva.
Il Regno di Dio incarna questo ideale di giustizia che sia l'Antico che il Nuovo Testamento suggeriscono e a volte danno anche degli strumenti, indicano delle vie per la sua realizzazione.
Ora questo concetto di Regno di Dio, se non lo spiritualizziamo e se non pensiamo che il Regno di Dio coincide con l'Aldilà, se non pensiamo che il Regno di Dio si contrappone al Regno dell'uomo, cioè alla sua realtà terrestre e storica, non può che costituire la dinamica interna di una società che cerca la realizzazione di ciò che noi intendiamo come Regno di Dio, dove la povertà sia combattuta, superata, dove la giustizia sia realizzata: il Regno di Dio è questo.
Se questo è il Regno di Dio, l'impegno sociale è inseparabile dalla fede perché il Regno di Dio è la forma storica che assume la fede, cioè il modo con cui si visibilizza la fede. Non c'è contraddizione tra umano e divino, è proprio questo tipo umano di convivenza che Dio ha assunto come il suo ideale e che ripropone all'uomo in perennità.
La Chiesa dovrebbe esserne un'esemplificazione, una realtà che dice che è possibile realizzare questo, perché di fatto in quella comunità lo si sta realizzando o ci sono spazi di realizzazione se non proprio in modo completo, purché anche qui la spiritualizzazione del concetto di Chiesa non ci porti a sottovalutare la qualità delle relazioni. Nel Vangelo è molto più sottolineato il rapporto fraterno come vera novità, che non il rapporto gerarchico, conosciuto nelle società.
La supremazia di significato del rapporto gerarchico nella Chiesa, che non vuol dire non riconoscere compiti diversi, dice chiaramente la difficoltà reale di costruire fraternità, è molto più facile costruire gradi di potere, benintesi o malintesi, sacri o profani, ma tali restano. E' più facile costruire scale che non costruire strade pianeggianti.
Questo ci dice che la Chiesa è peccatrice, che la Chiesa ha un messaggio, ha una ragione, ma fa un'enorme fatica a realizzarlo. E' necessario tornare a dare sostanza concreta a ciò che la Bibbia dice, perché non ci salviamo l'anima se non ci salviamo il corpo, non ci salviamo se non in una forma relazionale, tanto che la salvezza è presentata nelle forme più antiche come la realizzazione della relazione sociale: l'"avevo fame e avevo sete" anche qui sono opere di misericordia solo fino a un certo punto; "avevo fame e avevo sete" è la realizzazione di un rapporto per cui io tolgo, elimino il bisogno condividendo, in modo tale che non ci sia più.
Questo è realizzazione del Regno e della Chiesa.
Sono opere di misericordia solo se non dimentichiamo che la qualità delle relazioni umane, sociali è la qualità stessa della fede. Se non ricuciamo insieme questi due aspetti siamo destinati al fallimento.

La presente riflessione è stata tenuta da don Giovanni Perini nel corso di un incontro dell' Associazione Piazza D'uomo, Biella nell'ottobre 2008 presso Villa Piazzo, Pettinengo. www.piazzaduomobiella.it